“La separazione crea un enorme divario nella comprensione. Gli uomini non capiscono le donne e le donne non capiscono gli uomini, e tutto comincia quando i bambini vengono separati dalle bambine al hammam. Allora, una frontiera cosmica spacca il pianeta in due metà. E la frontiera indica la linea del potere, perché dovunque esista una frontiera ci sono due categorie di esseri che si muovono sulla terra di Allah: i potenti da una parte e i senza potere dall’altra” (Mernissi, 1996). L’immagine della frontiera, che separa e che crea gerarchie, introduce non solo il tema della segregazione della donna ma, per traslazione e analogia, è utile per una preliminare e necessaria riflessione sull’approccio all’Altro. Infatti, prima di affrontare il tema delle frontiere, costruite e imposte, tra uomini e donne nell’Islam, è opportuno analizzare la pericolosa costruzione e imposizione di frontiere tra noi e l’Islam, su cui troppo spesso aleggiano teorie di “scontri di civiltà”, teorie che impercettibilmente rischiano di legittimare stereotipi sul mondo islamico. Ecco perchè prima di tutto è necessario percorrere “sentieri oltre l'etnocentrismo e le rappresentazioni”, riconoscendo che la rappresentazione della donna nell’Islam, sempre uguale a se stessa, sottomessa e lapidata, rinchiusa e con il burqa, fa parte di quella particolare attitudine allo studio dell’Oriente che ha così ben analizzato Edward Said. All’Oriente viene negata la contemporaneità, la potenzialità di cambiamento, la storicità e la dinamicità, la complessità e la varietà. Una volta spogliati dall'arroganza eurocentrica, si potranno percorrere "sentieri interpretativi", attraverso i quali riconoscere che l’Islam non è di per sé misogino, piuttosto la contingenza storica e la cultura androcentrica dominante hanno soffocato le visioni ugualitarie e all’avanguardia che pure si riscontrano nel Corano. Attraverso "sentieri nel sacro e nel proibito" si scoprirà che l'harem, uno dei topoi della rappresentazione dell'Oriente da parte dell'Occidente, al contrario dell’opinione pubblica diffusa, non indica lo spazio della casa riservato a una moltitudine di mogli, bensì semplicemente la parte incontaminata e privata dell’abitazione, e che il velo non è un simbolo di sottomissione tout court, ma possiede un dinamismo storico, una simbologia non solo religiosa ma identitaria politica, come ha avuto modo di osservare Frantz Fanon. Infine attraverso "sentieri nei modelli femminili nell'Islam" si individueranno figure di donne nella vita del Profeta Muhammad e nella storia del mondo islamico, che sgretoleranno sia il modello unico di donna islamica proposto dai fondamentalismi, sia il modello unico di donna emancipata e occidentalizzata proposto da "sentieri psedudofemministi", che auspicano come unica via per uscire dalla misoginia l'abbandono della cultura islamica.
Sentieri oltre etnocentrismo e rappresentazioni
Nel linguaggio sociologico si parla di opposizione tra noi e loro, ingroup e outgroup. L’ ingroup è il gruppo al quale si appartiene, in cui ci si sente sicuri e protetti, di cui ci si può fidare, e dei cui membri è possibile prevedere i comportamenti. L’outgroup è il gruppo a cui ci si oppone, di cui si ha una vaga percezione, per il quale si prova timore, diffidenza, antipatia, odio. Eppure, non esiste un “noi” senza un “loro”. L’”Altro” è fondamentale per la costruzione della propria identità. Il sociologo Bauman afferma: “un outgroup è precisamente quella immaginaria opposizione a se stesso di cui un ingroup ha bisogno per la sua coesione, per la sua solidarietà interna e anche per la sua sicurezza emotiva” (Bauman, 2000). L’ingroup condivide “un codice culturale” che consente ai suoi membri di sapere come comportarsi in situazioni diverse e di prevedere le reazioni altrui e, tale codice culturale è considerato il migliore, e non solo, per poter funzionare, deve essere percepito come “naturale”, affinché non ci siano né sovvertimenti, né ribellioni. La cultura è, dunque, un dispositivo sociale, consente cioè agli uomini di vivere in gruppo in modo ordinato. Finchè l’outgroup è lontano geograficamente e fisicamente svolge la sua funzione di “alterità”, di polo di opposizione attraverso il quale si può definire la propria identità; allorché l’outgroup invade il territorio e la distanza fisica diminuisce possono scattare fenomeni di xenofobia legati alla paura di perdere la propria identità o legati al senso di smarrimento e di minaccia. Talvolta le differenze tra ingroup e outgroup sono esasperate per evitare confusioni e miscugli. Eppure, l’insistenza sulla salvaguardia della propria identità rischia di corrompere la propria umanità. L’enfasi sulle differenze tra civiltà occidentale e civiltà islamica, talvolta vergognosamente slittata nell’enfasi sulla superiorità occidentale, apre la strada a un nuovo tipo di razzismo, quello che Taguiff ha definito “razzismo differenzialista” (Stolcke, 2000). Questo nuovo tipo di razzismo piuttosto che rendere l’altro inferiore, ne esalta le differenze rendendole assolute e incommensurabili, in modo da impossibilitare qualsiasi dialogo o scambio e proponendo una ghettizzazione giustificata da un’assurda difesa della propria specificità culturale. La cultura cessa di essere qualcosa di cui abbiamo bisogno per essere umani e diventa un ostacolo alla comunicazione. Il fondamentalismo culturale si nutre della convinzione della staticità e immutabilità delle culture, della fobia della contaminazione e dell’ossessione per la difesa della propria tradizione. Sono da rigettare e da temere tanto il fondamentalismo di matrice islamica quanto il fondamentalismo culturale delle retoriche politiche occidentali. Questa premessa è necessaria per accostarsi alla questione femminile nell’Islam, spogliati dell’etnocentrismo e dell’arroganza di appartenere a una civiltà diversa o migliore. La rappresentazione non è la realtà, ma ne è un’immagine, un’idea, una semplificazione. L’espressione “la donna nell’Islam” è una riduzione offensiva che non tiene conto della varietà dell’Islam. Non esiste “la donna musulmana”, avulsa dal contesto storico e geografico, esistono “le donne musulmane”, milioni di donne musulmane, di diverse epoche, di diverse zone geografiche, di diverso status sociale, che si riferiscono a modelli diversi e hanno orizzonti diversi. La condizione delle donne nel mondo islamico è molto variegata: in alcuni paesi permane la discriminazione tradizionale; in altri, essa si è addirittura aggravata, assumendo le forme di una violenta oppressione; in altri ancora le donne hanno invece raggiunto la parità giuridica rispetto agli uomini, studiano, lavorano, sono libere di scegliere. L’islam è un mondo complesso e diversificato. La rappresentazione della donna nell’Islam, sempre uguale a se stessa, sottomessa e lapidata, rinchiusa e con il burqa, fa parte di quella particolare attitudine allo studio dell’Oriente che ha così ben analizzato Edward Said. All’Oriente viene negata la contemporaneità, la potenzialità di cambiamento, la storicità e la dinamicità, la complessità e la varietà. I caratteri dell’arabo o della donna musulmana diventano metastorici e metaindividuali. Lo scopo è dunque di andare al di là della “rappresentazione” e indagare scorci di realtà troppo spesso taciuti e far luce su interpretazioni sorprendenti e inaspettate.
Sentieri interpretativi
L’Islam non è di per sé misogino, sono piuttosto le sue manifestazioni storiche ad aver elaborato un sistema misogino. A questo proposito, l’avvocata iraniana Shirin Ebadi, Premio Nobel per la pace, scrive nel suo libro: “Negli ultimi 23 anni, dal giorno in cui ero stata privata della possibilità di essere giudice agli anni in cui avevo lottato nei tribunali rivoluzionari di Teheran, mi ero sempre ripetuta un ritornello: un’interpretazione dell’Islam che sia in armonia con l’uguaglianza e la democrazia è un’autentica espressione di fede. Non è la religione a vincolare le donne, ma i precetti selettivi di chi le vuole costrette all’isolamento. Quel credo, insieme con la convinzione che i cambiamenti in Iran devono arrivare per una via pacifica e dall’interno, ha sostenuto il mio lavoro” (Ebadi, 2006). Le religioni sono prodotti storici, pertanto, pur essendo latrici di un messaggio divino, e quindi eterno, non sono affatto immutabili, anzi, risentono dei cambiamenti sociali e culturali, si modificano e si adattano. Per i musulmani il Corano è stato dettato direttamente da Dio al Profeta Muhammad, ma tutti i messaggi religiosi si sono pur sempre calati nella storia e nello spazio, sono stati rivelati a uomini immersi in contesti culturali particolari. Per uscire dall’impasse dei fondamentalismi è necessario prendere consapevolezza che l’interpretazione del Corano procede da una dialettica tra parola di Dio, eterna, e realtà storica, ossia contingente e culturale. I pensatori musulmani si sono confrontati sin dai primi secoli dell’Islam nel dibattito sulla natura del Corano: creato (secondo la tesi mutazilita) o increato (secondo la tesi, poi predominante degli ashariti). Ancora e soprattutto in epoca contemporanea, la discussione continua perché è strettamente legata alla possibilità di “storicizzare” il Corano. Nasr Hamid Abu Zayd (n. 1943), pensatore egiziano, ha riflettuto sulla natura di “testo” del Corano, definendolo “creato”, “prodotto storico e culturale”, in cui il “senso” è immutabile e stabile ma il “significato” in evoluzione. Fazlur Rahman, pensatore pakistano (1919-1988), prefigura un duplice movimento nell’ermeneutica del Corano: dall’analisi delle circostanze particolari del contesto dell’Arabia del VII secolo, tempo in cui il Corano è entrato nella storia, alla generalizzazione di direttive morali e dogmatiche di valore universale, da queste agli adattamenti alla contingenza del presente. Il teologo musulmano Adnane Mokrani si spinge a scrivere: “Il Corano è assieme Parola di Dio e parola di Muhammad” specificando che con l’espressione “parola di Muhammad” intende mettere in evidenza “il contesto storico e l’orizzonte culturale” in cui il Corano è stato rivelato, pertanto, scrive Mokrani: “Leggere il Corano oggi esige un dialogo tra il mio momento storico e il momento fondatore della prima discesa, tanzil” (Mokrani, 2010). Nel Corano si riscontrano sia versetti in cui è chiara la concezione della superiorità maschile, sia versetti in cui si sancisce parità tra uomo e donna. Nella sura II, al versetto 228, si legge: “esse agiscano con i mariti come i mariti con loro, con gentilezza; tuttavia gli uomini sono un gradino più in alto”; nella sura XXX, al versetto 21, si legge: “e uno dei suoi segni è che Egli vi ha create da voi stessi delle spose, acciocché riposiate con loro, e ha posto fra di voi compassione e amore”; nella sura III, al versetto 195, si legge: “non manderò perdute una sola opera di voi che operate, siate maschi o siate femmine”; inoltre, più volte nel Corano Dio si rivolge alle donne direttamente, si ritrovano espressioni quali “i credenti e le credenti”. Il Corano, quindi, si presta tanto alle interpretazioni misogine quanto alle visioni ugualitarie tra uomo e donna. Uno dei fattori principali che ha spinto verso l’elaborazione di un sistema sfavorevole alle donne nei mondi musulmani fu sicuramente l’apporto delle concezioni misogine delle culture mediterranee e della civiltà sasanide (226-651). Gli harem regali di epoca sasanide arrivarono a contare centinaia di mogli e migliaia di concubine; il cristianesimo ereditò gli atteggiamenti misogini grechi e romani. Alcuni grandi pensatori della tradizione greco-cristiana contribuirono a legittimare visioni misogine; Aristotele, comparando la donna all’uomo ebbe a dire: “più gelosa, più incline al mugugno e al rancore, più spregiudicata, più falsa e ingannevole” (Ahmed, 1995), e Agostino arrivò a dire: “non riesco a vedere di che utilità possa essere una donna per l’uomo se si esclude la sua funzione di produrre figli” (Ahmed, 1995). Inoltre bisogna tener conto che furono i detentori del potere (maschi) a definire i codici interpretativi dell’Islam, favorendo la versione androcentrica, oscurando il messaggio etico di fondo e schiacciando le voci dissonanti. Una delle voci dissonanti fu certamente quella dei sufi, ossia dei mistici musulmani, di coloro che danno rilievo al messaggio più interiore dell’Islam. Il sufismo ha un patrimonio speculativo ricchissimo e spesso offre visioni ispirate all’armonia lontane da quelle retrograde e oscurantiste. La possibilità per una donna di diventare sufi e scegliere il nubilato, dando priorità alla vita spirituale, ha rappresentato una sfida alla concezione predominante che limitava le aspirazioni femminili alla sfera della funzione biologica e riproduttiva, e ha offerto un modo per svincolarsi dall’autorità maschile. Il maestro massimo del sufismo, Ibn 'Arabi (1165-1240), aprì uno squarcio nell’universo androcentrico abolendo l’immagine della donna come essere inferiore e promosse invece l’immagine della donna come elemento complementare all’uomo. L’amore tra uomo e donna, per Ibn 'Arabi, è metafora e preludio dell’amore tra uomo e Dio; l’unione dell’uomo e della donna che è un’estinzione del sé nell’altro, è analoga all’estinzione dell’uomo in Dio. Per Ibn 'Arabi Dio ha anche una dimensione femminile, infatti essendo la congiunzione dei contrari, è al tempo stesso maschio e femmina. La mistica dell’unione uomo-donna e l’amore come via per raggiungere l’Assoluto sembra ritrovarsi nei romantici tedeschi, che vedono nell’unione degli innamorati il mistero della vita, la congiunzione finito-infinito. Oltre ai sufi, anche altri gruppi minori, come i Carmati e i Kharigiti, offrirono interpretazioni del testo coranico diverse da quelle ufficialmente propinate; ad esempio i Kharigiti rifiutavano il concubinaggio. Ciò dimostra che l’Islam non è, per così dire, condannato ad essere misogino, anche se si presta a visioni misogine, ma piuttosto la contingenza storica e la cultura androcentrica dominante hanno soffocato le visioni ugualitarie e all’avanguardia che pure si riscontrano nel Corano.
Sentieri di confronto: matrimonium e nikah
L’approccio cristiano classico al matrimonio differisce dall’approccio islamico classico al nikah (il corrispettivo del matrimonium). San Paolo, nella Prima Epistola ai Corinzi raccomandava: “…è cosa buona per l’uomo non toccare donna; tuttavia, per il pericolo dell’incontinenza, ciascun uomo abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito”; Muhammad, invece, invitava al matrimonio sconsigliando vivamente il celibato: “il matrimonio fa parte della mia sunna; chi non segue la sunna non segue me”, “non v’ha celibato nell’islam”. Nell’Islam la sessualità non aveva la connotazione negativa e peccaminosa che aveva nella cultura cristiana. Nel matrimonio cristiano l’accento è posto sulla procreazione, l’unione tra gli sposi è solo il tramite (non a caso matrimonium deriva da mater); nel nikah il fulcro è sulla relazione sessuale (non a caso nikah vuol dire “accoppiamento”). Affinché il nikah sia valido dal punto di vista della shari‘a sono formalmente indispensabili quattro elementi: 1 la capacità giuridica delle parti, 2 il consenso dei futuri coniugi, 3 l’intervento del tutore della sposa (wali), 4 la costituzione del donativo nuziale a vantaggio della nubenda (mahr). Le cerimonie e le feste che contornano il matrimonio dipendono soprattutto dalle tradizioni locali. La figura del tutore della sposa (wali) deriva probabilmente da quell’approccio ideologico dell’Islam che riserva alla donna la sfera privata estromettendola da quella pubblica, in cui può intervenire solo attraverso “filtri”, indirettamente. Nonostante Muhammad abbia condannato l’imposizione alla donna della volontà del tutore, esiste la pratica per cui è il tutore a scegliere il marito per la donna. Le differenze tra le scuole giuridiche e tra le usanze locali, in questo caso, avevano e hanno un ruolo fondamentale, in quanto in relazione alle interpretazioni giuridiche e alle consuetudini locali, la donna musulmana in alcuni luoghi doveva subire le imposizioni del tutore, in altri poteva difendere il suo diritto al rifiuto del consenso. Nella sura II, al versetto 223, è scritto: “le vostre donne sono come un campo per voi, venite dunque al vostro campo a vostro piacere, ma premettete qualche atto pio”; nella sura IV è scritto: “e se temete di non essere equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo sarà più atto a non farvi deviare”. Quest’ultimo è il versetto, l’unico, che autorizza la poligamia, ma l’inciso “e se temete di non essere giusti con loro, una sola” coniugato con il versetto 129 della sura IV, che recita: “anche se lo desiderate non potete agire con equità con le vostre mogli”, suggerisce un invito alla monogamia. La scuola hanafita stabilisce per la donna il diritto di dettare condizioni nel contratto matrimoniale, ad esempio, quella di vietare al marito di prendere una seconda moglie. La scuola malichita prevede per le donne il diritto al divorzio in caso non solo di impotenza, come previsto dalla scuola hanafita, ma anche in caso di abbandono, crudeltà, malattia cronica, incurabile o pregiudizievole per la moglie. L’istituzione del ripudio (talaq) è previsto esplicitamente dal Corano, “il ripudio vi è concesso due volte” (II, 229), ma due hadith (detti del Profeta) lo aborriscono: “tra le cose lecite il ripudio è la cosa più odiosa al cospetto di Dio” dice il Profeta, e ancora: “ammogliatevi e non ripudiate la vostra donna perché il ripudio fa tremare il trono di Dio” (Vercellin, 2000). Alla luce di questi hadith e del versetto coranico che invita alla riconciliazione, “e se temete una rottura fra marito e moglie nominate un arbitro dalla parte di lui e uno dalla parte di lei, e se i coniugi desiderano riconciliarsi Dio metterà armonia tra loro”(IV, 35), il ripudio sembra essere stato concesso “con sofferenza” da Dio. L’elaborazione dottrinaria ha previsto altri due tipi di separazione: l’annullamento davanti a un giudice, richiedibile sia dallo sposo che dalla sposa, per ragioni gravi, e il divorzio per mutuo consenso, non riconosciuto, però da tutte le scuole. Vercellin, dopo aver consultato varie fonti, afferma che “la presenza contemporanea di più mogli per un unico marito sembra essere stata rara e soprattutto limitata alle classi agiate”, piuttosto sembra che “la forma più diffusa di poligamia sia stata la bigamia, di solito un uomo prendeva una seconda moglie quando la prima era ormai anziana, molto spesso con l’autorizzazione di quest’ultima, che si liberava di una serie di incombenze casalinghe e conservava, per motivi di età e prestigio, un certo potere dello spazio privato” (Vercellin, 2000). Nonostante nell’immaginario occidentale persista lo stereotipo del musulmano poligamo, la maggior parte degli ulama’(dotti islamici) contemporanei ritiene che la poligamia, pur essendo prevista e ammessa dal Corano, è virtualmente proibita ed è accettabile in casi di necessità, ossia i dotti invitano gli uomini ad essere monogami. Ma, già nel X secolo altri pensatori musulmani, tra cui Ibn Sina (da noi conosciuto come Avicenna), propugnavano il matrimonio monogamico. Nel corso del XX secolo gli stati hanno vietato o cercato di limitare la poligamia. Nel 1926 è stata vietata in Turchia, in seguito in Tunisia, in Albania, nell’ex-Urss, in Cina. In altri stati la poligamia è tuttora legale, ad esempio in Iran e in Arabia Saudita. In passato, presso le classi dirigenti e i ceti agiati più frequente era il concubinato. Era molto più facile prendere con sé una concubina, che poteva essere scartata o venduta in ogni momento, che una moglie, con garanzie e diritti (Ahmed, 1996). Fu soprattutto nel periodo abbaside (750-1250) che i palazzi califfali si riempirono di concubine. Le grandi ricchezze ottenute dalle conquiste di territori e popolazioni permisero ai musulmani di rango elevato di procurarsi tutte le concubine che desideravano. Per gli abbasidi e per i mamelucchi (1250-1517) avere il massimo numero di mogli e dei grandi harem di concubine era un segno di potere.
Sentieri nel sacro e nel proibito: harem e hijab
Una testimonianza di come sia impressa nella coscienza delle donne la correlazione tra harem e potere si ritrova nel libro di Mernissi, “La terrazza proibita”. Quando uno dei personaggi, la ragazzina Shama, presenta la sua teoria sull’origine dell’harem, immagina che gli uomini avessero deciso come criterio per la scelta del sultano la quantità di donne possedute, e affinché fossero bloccate una volta prese, idearono case con porte e chiavistelli: l’harem. Racconta Shama: “la gara si organizzò in tutto il mondo e il primo round venne vinto dai bizantini… l’imperatore di Bisanzio conquistò il mondo, prese un altissimo numero di donne e le rinchiuse nel suo harem, per dimostrare a tutti che era il capo. Ma poi, col passare dei secoli anche gli arabi cominciarono a imparare come si conquistano terre e donne… fu il califfo Harun al-Rashid che sconfisse l’imperatore romano… quando ebbe messo insieme un harem di un migliaio di giovani schiave costruì un grande palazzo a Baghdad e le chiuse tutte lì dentro, in modo che nessuno potesse dubitare che il Sultano era lui” (Mernissi, 1996). Il racconto di Shama conferma la diffusione di una cultura predominante androcentrica in tutto il Mediterraneo e della concezione della donna come oggetto, come qualcosa da catturare e ostentare. I bambini del romanzo si chiedono cosa sia esattamente un harem: “un harem è una casa dove un uomo vive con molte mogli?”, “un harem è una casa che hanno tutti gli uomini sposati?”, “un harem può avere più di un padrone?”, “c’è bisogno di schiavi per fare un harem?”. I bambini hanno esempi di harem diversi: con uomini con una o più mogli, con uno o più padroni, con o senza schiavi, e quando, confusi, chiedono chiarificazioni alla zia Habiba, questa risponde: “gli harem cambiano da una parte all’altra del mondo e da un secolo all’altro” (Mernissi, 1996). L’harem è uno dei topoi della rappresentazione dell’Oriente da parte dell’Occidente. Nel Settecento e Ottocento il gusto dell’esotico si tradusse in una vera e propria costruzione dell’Oriente, come luogo affascinante e misterioso, e allo stesso tempo, lussurioso e dispotico, così l’harem è diventato uno dei soggetti più trattati e quindi vittima per antonomasia delle distorsioni e stereotipizzazioni degli europei. Dice Starobinski in proposito: “l’Oriente non ha nulla a che fare là dentro, è uno spettacolo che gli uomini dell’Occidente si allestiscono per liberarsi dai valori dell’Occidente” (Vercellin, 2000). La parola araba harem viene dalla radice hrm che è legata al concetto di sacro, incontaminato, inviolabile, e quindi proibito. Harem, al contrario dell’opinione pubblica diffusa, non indica lo spazio della casa riservato alle donne, bensì semplicemente “la parte incontaminata dell’abitazione, riservata alla vita privata, domestica della famiglia (allargata) e pertanto contrapposta alla vita pubblica” (Vercellin, 2000). Purtroppo ciò che doveva garantire privacy e protezione è diventato strumento di restrizione e oppressione. Ciò che però è importante sottolineare è l’evoluzione e il dinamismo di concezioni e istituzioni, ossia la natura storica e culturale di manifestazioni che, a prima vista, possono sembrare derivazioni di una essenza immutabile. L’harem, dal momento che designa l’idea di “separazione”, “divisione orizzontale dello spazio”, rientra nel campo semantico di hijab, oggi tradotto come “velo islamico”. Un breve excursus storico-semantico del termine hijab renderà chiaro che il significato delle parole, dei precetti, degli indumenti, muta a seconda delle contingenze sociali, economiche, culturali. Fatima Mernissi individua tre ordini semantici del hijab:
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un ordine semantico di tipo visivo, nel significato di “velare, sottrarre allo sguardo”;
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un ordine semantico di tipo spaziale, nel significato di “separare, creare una soglia” (hijab indica anche la cortina dietro la quale stava il califfo);
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un ordine semantico di tipo etico, nel significato di “essere proibito”.
L’uso del velo non fu introdotto dall’Islam, ma era già presente nelle società bizantina e sasanide, come segno distintivo delle classi alte. Nel mondo islamico, in origine, l’obbligo del velo riguardava solo le mogli del Profeta, tanto che “prendere il velo” significava diventare sposa del Profeta. Il velo proteggeva da oltraggi e molestie. L’assimilazione di modelli mediterranei, l’emulazione delle mogli del Profeta furono tra i fattori che concorsero alla generale adozione del velo. L’uso e le regole del velo non sono state stabilite in modo definitivo nel Corano e dalla Sunna, piuttosto, con l’Islam si è fatta strada una concezione della maggior parte del corpo della donna come ’awra, ossia come qualcosa che non deve essere visto, perché possibile causa di rottura dell’ordine sociale (Tersigni, 1997). Nel Corano non vi è prescrizione esplicita dell’uso del velo ma raccomandazioni che riguardano il generale senso del pudore: si menziona il khimar nella sura XXIV versetto 31, “e dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che fuori appare, e si coprano i seni di un velo…”; si menziona il hijab della sura XXXIII, al versetto 53, raccomandando ai credenti di rivolgersi alle mogli del Profeta interponendo un velo, “e quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo, restando dietro una tenda: questo servirà meglio alla purezza dei vostri e dei loro cuori”; si menziona il jalabib nella sura XXXIII, al versetto 59 “O Profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli, questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente e clemente!”. Vercellin ha sottolineato l’aspetto del velo come segno di distinzione, riflettendo sulle circostanze in cui furono rivelati questi ultimi versetti, ossia l’epoca in cui la Comunità di Muhammad si trasferì dalla Mecca a Medina, dove aveva bisogno di connotarsi come differente anche tramite segni esteriori. Non c’è unicità di vedute nel mondo islamico. C’è chi sostiene che il velo sia simbolo di obbedienza a Dio, di modestia e di pudore e sia esplicitamente espresso il suo uso nel Corano. C’è chi sostiene, invece, che non esista un dogma sul hijab e che il suo uso sarebbe entrato in scena per questioni di necessità, quando le contaminazioni del mondo esterno (l’invasione mongola del XIV secolo) e i processi di modernizzazione (del XX secolo) richiesero una difesa di un’identità in pericolo. Il velo islamico ha sollevato non solo discussioni religiose ma politiche e geopolitiche, nel senso che una questione riguardante l’interpretazione delle prescrizioni islamiche sul pudore delle donne è stata politicizzata sia all’interno dei paesi a maggioranza musulmana, sia nel dibattito internazionale. Il velo è stato stigmatizzato dagli europei come segno dell’arretratezza dei popoli orientali e rinnegato dai governi “modernizzatori” (Mustafa Kemal Ataturk proibì il fez per gli uomini e il velo per le donne nel processo di laicizzazione in Turchia; lo shah Pahlavi nel 1936 in Iran proibì il velo alle donne). Il velo ha subito una rivalutazione, un passaggio da stigma a stemma, come ha notato M. Mansoubi, per rivendicare l’identità islamica. In Iran, negli anni Settanta le militanti della sinistra islamica avevano eletto il velo a simbolo della mobilitazione; in Algeria, il velo fu utilizzato come reazione all’occupazione francese. L’uso del velo per ostentare la propria identità, l’appartenenza ad un gruppo è di estrema attualità. Il velo, criticato dagli occidentali e stigmatizzato come segno palese dell’oppressione dell’Islam nei confronti delle donne, è diventato un modo per affermare la propria identità islamica, una testimonianza della resistenza alle invasioni culturali occidentali. L’identità sta diventando strategia. Issam al-Aryan, ideologo delle jam’at egiziane, nel 1980 affermò: “l’alto numero di studentesse che portano il velo è un segno di resistenza alla civiltà occidentale” (in Kepel, 2001). Nel 2004 la Francia ha promulgato la cosiddetta legge sulla laicità per cui “ nelle scuole, nei collegi e nei licei pubblici è proibito portare segni o abiti con i quali gli alunni manifestino ostentatamente un’appartenenza religiosa”. Le reazioni nel mondo islamico sono state le più varie: Dalil BuBaker, presidente del Consiglio francese del culto musulmano, ha affermato: “siamo cittadini francesi e applichiamo la legge francese”, l’Unione delle Organizzazioni islamiche di Francia ha considerato la legge un attacco alla libertà religiosa. Proibire l’uso del velo può avere effetti contrari a quelli sperati, ossia può inasprire i desideri separatisti, caricarlo di significati politici e ideologici. Una riflessione di Franz Fanon del 1971 può offrire una chiave di lettura utile per il presente: “il proposito deliberatamente aggressivo del colonialista verso lo haiq (il velo tradizionale del Maghreb) dà nuova vita a questo elemento morto, perché stabilizzato, senza evoluzione nella forma e nelle coloriture, del patrimonio culturale algerino… All’offensiva colonialista nei riguardi del velo, il colonizzato oppone il culto del velo. Ciò che era elemento indifferenziato in un insieme omogeneo, acquisisce un carattere tabù e l’atteggiamento di un’algerina rispetto al velo sarà continuamente riferito al suo atteggiamento globale di fronte all’occupazione straniera… Velo tolto e poi rimesso, velo strumentalizzato, trasformato in tecnica di travestimento, in mezzo di lotta… C’è dunque un dinamismo storico del velo… ci si vela per tradizione, per separazione rigida dei sessi, ma anche perché l’occupante vuole strappare il velo all’Algeria” (Vercellin, 2000). Così in Iran, il velo ha cambiato connotazione a seconda delle situazioni politiche, le stesse donne che durante il regime dello shah utilizzavano il velo come segno di protesta, scesero poi in piazza per manifestare contro l’imposizione del chador nella Repubblica islamica. Nell’Iran khomeinista, l’imposizione del velo alle donne, dal punto di vista psicologico, è stato come uno schiaffo, così come scrive Shirin Ebadi: “. Fu come ricevere uno schiaffo” (Ebadi, 2006); e dal punto di vista sociologico-politico, l’imposizione del velo è stata strumento di controllo: “per le donne i luoghi pubblici … divennero terreno minato… dopo essere stata arrestata due volte per aver indossato malamente il velo e per abbigliamento non corretto dal punto di vista dell’Islam, conclusi che c’era ben poco da fare per difendersi da uno Stato che mirava a imporre un clima di terrore. E quello, sospettavo, era lo scopo ultimo: generare una paura talmente dilagante da costringere le donne a rimanere a casa, proprio il luogo, dove, secondo gli iraniani tradizionalisti, dovevano stare” (Ebadi, 2006). Esiste una varietà di veli islamici, diversi per cultura e tradizioni anche all’interno dello stesso paese. Il burqa è tradizionale dell’Afghanistan, è un velo integrale dai colori accesi (arancione, verde, azzurro), che copre completamente la donna, lasciando aperta solo una finestrella a rete davanti agli occhi. Il chador è diffuso soprattutto in Iran, dove è obbligatorio dal 1979, è nero e lascia scoperto solo l’ovale del volto. Lo ha’iq è il velo tradizionale del Maghreb, avvolge il corpo e il capo, è di lana in Marocco, di seta in Algeria. Lo hijab è diffuso in Egitto, Siria, Giordania, Marocco, è composto da un copricapo che nasconde la testa e un velo che appoggiato sopra è legato sotto il mento o appuntato con una spilla. Il niqab è un velo copre testa e viso e lascia scoperti solo gli occhi. Nelle società islamiche contemporanee è riapparso il velo nei paesi in cui era scomparso, come in Egitto. Gli storici fanno risalire la ricomparsa dell’abbigliamento islamico al periodo successivo al 1967 (anno della sconfitta degli arabi nel conflitto contro Israele), durante il quale la disillusione per il nazionalismo, il panarabismo, la modernizzazione, preparò il terreno su cui attecchirono i movimenti politici islamisti.
Sentieri nei luoghi relazionali: suq, terrazze e hammam
La separazione orizzontale dello spazio tra pubblico e privato non sempre coincide con la separazione dei sessi: esistono spazi privati ma aperti agli estranei, come le terrazze, e spazi pubblici che tuttavia vengono frequentati dalle donne, come il suq, il mercato. Le terrazze sono da sempre luoghi magici per le donne, in quanto luoghi destinati agli sguardi furtivi o agli incontri proibiti. Periodicamente nei mondi dell’Islam veniva vietato l’accesso delle donne al mercato, tuttavia il divieto veniva ogni volta contestato dai mercanti di tessuti e profumi che si lamentavano per le difficoltà frapposte alla vendita delle loro mercanzie e alla fine veniva revocato. Le donne andavano al suq per acquisti ma soprattutto per svagarsi. Ancora oggi i bazar hanno la funzione di creare occasioni di contatto. Il proprietario di una frequentatissima gelateria nella strada Tahliyya a Gedda in Arabia Saudita ha scelto di evitare i tavolini per non essere costretto a creare spazi separati per uomini e donne, in questo modo, i clienti, consumando stando in piedi, possono avere contatti casuali misti. Un altro luogo pubblico frequentato dalle donne è lo hammam, il bagno pubblico. Esistono bagni riservati alle donne e bagni riservati agli uomini o comunque lo stesso bagno ha orari o giorni diversi per uomini e donne. Il Corano e la Sunna, ossia le tradizioni del Profeta, contengono raccomandazioni dettagliate per la cura dell’igiene personale. La purificazione rituale dopo il parto e dopo i rapporti sessuali è all’origine della pratica dello hammam. La prescrizione del bagno rituale si trasformò presto in un’abitudine igienica. Gli arabi ereditarono il bagno pubblico dalla tradizione romana delle terme. Come nelle terme romane anche nello hammam i rapporti sociali erano intensi. Le donne avevano l’opportunità di stabilire i primi contatti tra le famiglie di futuri sposi, e non tralasciavano di sondare il reciproco gradimento tra i giovani; le donne avevano la possibilità di far accelerare o rallentare fino a ostacolare le unioni matrimoniali.
Sentieri “femministi”?
Accompagnare le donne di altre culture sulla strada dell’emancipazione dalla sopraffazione maschile e dalla violenza non significa strapparle dalle proprie radici culturali. Ahmed afferma: “l’adozione di un’altra cultura come rimedio alla misoginia della propria , è non solo assurdo ma impossibile” (Ahmed, 1995). Il femminismo europeo esportato nei mondi dell’Islam si è macchiato di servilismo nei confronti del colonialismo, si è invischiato nelle retoriche razziste. Le idee del femminismo occidentale servirono a giustificare l’aggressione a culture diverse in nome di una superiorità etica e di una missione civilizzatrice. Leila Ahmed ricorda l’ipocrisia della retorica di “liberazione delle donne” di Lord Cromer, console generale britannico in Egitto nel periodo di occupazione: il Lord, mentre in Egitto tuonava contro il velo, in patria fu uno dei fondatori della Lega contro il voto alle donne; in realtà le sue battaglie pseudofemministe non erano che un modo per diffamare l’Islam, la civiltà che riteneva inferiore e quindi da colonizzare. Vercellin smaschera l’ipocrisia, o quantomeno l’opportunismo, di certe retoriche femministe della nostra epoca. In Afghanistan è stato utilizzato il criterio dei due pesi e due misure per le denunce della condizione femminile: silenzio dell’Occidente dopo il rapporto di Amnesty sull’Ordinanza sul velo del 1994, perché il regime dei mujahedin si era opposto al regime filosovietico, ampio spazio alle denunce contro la misoginia dei taleban, in occasione della guerra in Afghanistan. Sintetizzando, l’impiego strumentale del femminismo in funzione degli interessi coloniali avrebbe reso quest’ultimo sospetto agli occhi dei musulmani, determinando un ostacolo per i movimenti di emancipazione femminile nelle società islamiche e intrappolando la lotta per i diritti delle donne musulmane nello spazio della contesa culturale. Nei mondi dell’Islam esistono “femminismi” di tipo laico e di tipo islamico, quest’ultimo si autodefinisce piuttosto come “movimento delle donne”, per evitare qualsiasi confusione con riferimenti esogeni, tacciabili di imperialismo culturale. Il femminismo islamico differisce dal femminismo di tipo europeo perché non ne condivide i presupposti laici, ossia, rivendica i diritti delle donne all’interno di una visione religiosa particolare che è quella islamica, può anelare all’uguaglianza di genere o alla complementarietà tra uomo e donna. Il femminismo islamico sta promuovendo un’interpretazione dei testi religiosi fatta da donne a favore delle donne, ossia le donne studiano il fiqh (la giurisprudenza islamica) e accedono al diritto di esercitare l’ijtihad (interpretazione) dei testi sacri. Talvolta la scelta del femminismo di tipo islamico è dettata anche da ragioni opportunistiche o più semplicemente tattiche, in situazioni in cui uno scontro su un terreno diverso da quello dell’Islam non sarebbe neanche pensabile. “… non avevamo altra scelta se non batterci per l’uguaglianza femminile nell’ambito di una cornice islamica… se sarò costretta a spulciare antiquati libri di giurisprudenza islamica e a fare affidamento a fonti che sottolineino l’etica egualitaria dell’Islam, lo farò. Questa è la via più difficile? Be’, certamente sì. Ma esiste forse un altro campo di battaglia?” (Ebadi, 2006). Un esempio dell’attivismo delle donne nei paesi a maggioranza musulmana è dato dalle associazioni che hanno lottato per ottenere la riforma della Mudawana (codice di famiglia) in Marocco. Dall’inizio degli anni Novanta, il Marocco ha dato segnali di apertura politica e di attenzione per il rispetto dei diritti umani. In questo quadro si è inserito il movimento delle associazioni di donne che nel 1993 crearono il “Consiglio Nazionale per la modifica della Mudawana” redigendo un memorandum di rivendicazioni. Nel 1993 fu adottato un emendamento che per i contenuti frustrò le aspettative delle donne ma per la carica simbolica aprì un ampio orizzonte di speranze, in quanto desacralizzò un testo di legge sino ad allora considerato intoccabile. Il movimento delle donne ha continuato a rivendicare i diritti delle donne all’interno del matrimonio, per le questioni del divorzio, dell’eredità e dell’affidamento dei figli, affrontando le minacce degli islamisti e i rallentamenti nell’iter di riforma. Il risultato sono state le modifiche della Mudawana che il re Mohamed VI ha annunciato nel 2003. In sintesi, le modifiche riguardano:
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il linguaggio: non più patriarcale e discriminatorio nei confronti della donna;
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lo statuto della famiglia, posta sotto la responsabilità di entrambi i coniugi;
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l’abolizione della tutela della donna per il contratto di matrimonio;
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l’età minima di matrimonio per le donne uguagliata a quella degli uomini (18 anni);
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l’abolizione del dovere di obbedienza della moglie al marito, sostituito dal concetto di rispetto reciproco;
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l’articolazione di procedure più restrittive per la poligamia e restrittive per il ripudio;
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l’armonizzazione dei diritti dei bambini alle convenzioni internazionali;
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il diritto alla custodia dei figli alla madre in primo grado e al padre in secondo grado fino ai 15 anni;
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facilitazioni di contrarre matrimonio per i marocchini residenti all’estero;
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l’introduzione di altre forme di divorzio (quello consensuale e per causa di discordia (chiqaq);
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uguaglianza dei diritti di eredità per discendenti patrilineari e patrilineari.
Sentieri nei modelli femminili nell’Islam
La storia dell’Islam offre modelli di donna assai differenti, per atteggiamento, comportamento, indole e approccio ai rapporti di genere e approccio al potere e alla vita pubblica. Fatima, figlia di Muhammad e sposa di ‘Ali, cugino paterno del Profeta, è il modello della moglie e madre rassicurante e accomodante; alcuni hanno paragonato l’immagine di Fatima a quella di Maria madre di Gesù, sia per il suo essere chiamata “vergine”, sia per il sacrificio del figlio Husayn nella strage di Karbala (Vercellin, 2000). Sukaina bint al-Hussein, pronipote del Profeta, è ricordata dagli storici islamici per le proteste contro l’intensificazione delle restrizioni per le donne e per la sua fermezza nel non voler nascondere la bellezza di cui Dio stesso le aveva fatto dono (Tersigli, 1997). ‘A’ysha, la giovane moglie del Profeta, incarna il modello di donna attiva e autonoma, protagonista di aneddoti che dipingono il suo carattere vivace e ribelle. Valga uno per tutti: i versetti 37, 38, 40 della sura XXXIII, giustificano il matrimonio dei credenti con le mogli ripudiate dai figli adottivi; questo fu rivelato dopo che Muhammad sposò Zaynab, per l’appunto moglie ripudiata da Zayd, suo figlio adottivo, gesto che era considerato quasi un incesto nell’Arabia preislamica; ‘A’ysha, indignata, secondo alcune fonti, apostrofò così il Profeta: “Vedo che il tuo Dio si affretta a venirti personalmente in aiuto negli affari di cuore!”. Quando Muhammad morì, ‘A’ysha, che aveva solo 20 anni, mantenne un ruolo sociale e politico attivo nella comunità, fu la fonte principale degli hadith del Profeta, e durante la guerra civile che diede origine alla divisione tra sunniti e sciiti, fu protagonista della cosiddetta battaglia del cammello (658) che prende il nome proprio dal cammello cavalcato da ‘A’ysha. ‘A’ysha fu la prima donna musulmana a oltrepassare gli hudud (i limiti), scavalcando i confini tra privato e pubblico, femminile e maschile, capeggiando la prima rivolta contro il quarto califfo ‘Ali nel 658, tanto da doversi sentir dire da ‘Ali, dopo la sconfitta: “è questo che il messaggero di Dio ti ha ordinato? Non ti ha ordinato di startene tranquilla a casa tua?” (Mernissi, 1992). Altre donne, nella storia politica dell’Islam hanno oltrepassato i confini, ma nella storia ufficiale sono state “opportunamente” dimenticate. Fatima Mernissi ha richiamato alla memoria “le sultane dimenticate”. La madre del califfo Harun al-Rashid, Khayzuran, ha dimostrato doti da capo di Stato pur rimanendo confinata nell’harem; altre donne conquistarono lo spazio tradizionalmente di prerogativa maschile, uscendo dall’ambito privato dell’harem. Shajarat al-Durr salì al potere in Egitto nel 1250 dopo la morte del marito Malik al-Salih della dinastia Ayyubide e quando il califfo abbaside si rifiutò di riconoscerla, non esitò a sposare al-Mu’izz Aybak al-Turkmani, scelto dal califfo come nuovo sultano di Egitto, pretendendo di gestire il potere con il nuovo marito, sostanzialmente e formalmente (la moneta era coniata con il nome di entrambi, la khutbah nelle moschee veniva detta nel nome di entrambi). Tra il XIII e il XVII secolo sei sultane mongole (khatun) e sette sultane delle isole Maldive e dell’Indonesia salirono al potere. Nell’XI e XII secolo nel cuore dell’Islam arabo, due donne, Malika Asma’ e sua nuora Malika ‘Urwah, non solo regnarono in Yemen ma furono apprezzate, stimate e amate. Così, Mernissi smentisce le affermazioni di molti musulmani la cui “memoria è ostaggio dell’opportunismo politico” e anche di molti studiosi occidentali come Bernard Lewis che ha affermato superficialmente: “Non ci sono regine nella storia islamica… ci sono alcuni esempi… ma questa eventualità era percepita come un’aberrazione” (Mernissi, 1992). Un altro caso di “sultana dimenticata” è quello di Sitt al-Mulk, figlia del califfo fatimide tollerante e giusto al-‘Aziz, che prese il potere dopo la misteriosa scomparsa del fratello al-Hakim, che la follia aveva reso un assassino intollerante e inviso al popolo. Sitt al-Mulk riuscì a ripristinare l’ordine, pacificare gli animi e dare nuovi impulsi all’economia.
Conclusioni L’emancipazione delle donne musulmane non deve essere un abbandono della propria cultura bensì una riformulazione del rapporto uomo-donna all’interno del proprio universo simbolico-culturale. Si è visto, infatti, come l’Islam non sia misogino nella sua essenza. Un femminismo non consapevole della potenzialità di cambiamento e adattabilità dell’Islam, rischia di essere complice della diffusione del razzismo differenzialista in Occidente e dell’incremento del fondamentalismo nel mondo islamico. È necessario che le donne musulmane ritrovino all’interno della propria cultura le strade dell’emancipazione, così da sgretolare sia il modello unico di donna islamica proposto dai fondamentalismi, sia il modello unico di donna emancipata e occidentalizzata proposto da certe retoriche occidentali.
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